La Terza guerra del Golfo (2003)

16/12/08

16/12/08



Con l'inizio della primavera 2003 comincia anche la guerra all'Iraq da parte, soprattutto, degli Stati Uniti d'America. Ma cosa c'entra questo Paese mediorientale con gli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001?

Nel libro Does America Need a Foreign Policy? Toward a Diplomacy for the 21st century, uscito negli Stati Uniti nell'aprile 2001, Henry Kissinger sosteneva la tesi che la politica estera americana avrebbe dovuto mutare perché "fino ad oggi non è ancora stata fatta una valutazione sistematica delle conseguenze della fine della Guerra Fredda". Si sarebbe trattato del compito principale per George W. Bush: rimediare agli errori e ai limiti della gestione clintoniana. La riflessione critica sulla gestione Clinton della politica estera americana ed il dibattito sulla futura politica estera di una eventuale Amministrazione Bush, era iniziato tra i maggiori studiosi ed esperti del Partito repubblicano ben prima della vittoria elettorale: a Clinton veniva rimproverato non solo l'oggettivo indebolimento della Presidenza, ma soprattutto l'assenza di una dottrina di politica estera adeguata al complicato passaggio da una fase bipolare ad una fase multipolare delle relazioni internazionali.

Clinton, secondo le critiche repubblicane, "stordito" (oltre che dai guai personali) dal periodo felice per l'economia americana, avrebbe confuso la superiorità economica con quella politico-militare: così la sua Amministrazione, oltre a ridurre le spese militari, avrebbe assistito passivamente all'indebolimento della posizione degli USA nel mondo, non cogliendo le conseguenze strategiche dell'emergere delle vecchie e nuove potenze del mondo multipolare.

L'obiettivo della Amministrazione Bush in politica estera (preconizzato da Kissinger e condiviso da George W. Bush e dal suo staff) non poteva perciò che essere quello di ribaltare la politica estera di Clinton e di riportare l'America al ruolo che le spettava, e cioè di perno delle relazioni internazionali, sia rispetto all'Europa che all'Asia. Per raggiungere questo obiettivo venne avviato anzitutto un gigantesco programma di riarmo e vennero lanciati alle altre potenze una serie di segnali che progressivamente delinearono quella che poi è diventata la dottrina Bush: dal possibile uso del nucleare in guerre locali, al sistema di difesa spaziale, alla guerra preventiva (tra i cui obiettivi più probabili c'era da subito l'Iraq).

Tutto questo accadeva prima dell'11 settembre 2001, quando un gruppo terroristico, espressione delle frange più reazionarie delle reazionarie borghesie mediorientali, ha colpito in modo indelebile gli Stati Uniti nella loro psicologia politica di prima potenza mondiale (e di isola difesa da due oceani...), mostrandone la vulnerabilità. Gli Stati Uniti reagirono con forza, certamente per limitare i danni al loro prestigio di grande potenza e per dare un segnale preciso agli avversari di oggi e di domani: ma seppero anche sfruttare al meglio la situazione per accelerare i tempi della realizzazione del riorientamento strategico che l'Amministrazione Bush aveva avviato. La guerra al terrorismo divenne l'inattaccabile e popolare cornice dentro la quale, a partire dall'Afghanistan, venne collocato un disegno strategico che aveva ben altri obiettivi che Osama Bin Laden o Saddam Hussein. Basti ricordare cosa scrisse all'epoca H. Kissinger ("La Stampa" 28/10/2001): "[...] La guerra al terrorismo non consiste solo nel dare la caccia ai terroristi. Consiste, soprattutto, nello sfruttare la straordinaria opportunità che si è presentata di rinnovare il sistema internazionale. I Paesi del Nordatlantico, avendo compreso i loro comuni pericoli, possono volgersi a una nuova definizione di interesse comune. I rapporti con gli ex nemici possono andare ben oltre l'eliminazione dei resti della Guerra Fredda e trovare un nuovo ruolo per la Russia postimperiale e per la Cina che emerge come grande potenza. Anche l'India assume un importante ruolo globale. Dopo un consistente successo nella campagna contro il terrorismo, il processo di pace in Medio Oriente deve riprendere con urgenza...".


Vinta la guerra in Afghanistan contro i talebani, l'attenzione dell'Amministrazione Bush venne indirizzata ai Paesi del cosiddetto Asse del Male e cioè l'Iraq, l'Iran, e la Korea del Nord. Ma divenne ben presto evidente che nel mirino di Bush c'era soprattutto l'Iraq e che l'obiettivo Saddam Hussein ne nascondeva in realtà ben altri. La storia dell'Iraq ci offre una idea chiara di cosa sia l'imperialismo e di come nell'epoca dell'imperialismo siano le grandi potenze che decidono, sulla base dei loro interessi e della loro forza, anche la sorte delle piccole e medie potenze. C'è una affermazione, nel libro del realista Kissinger, che vale mille discorsi, tanto è chiara e profetica: "[...]Non è troppo presto per interessarsi all'Iraq che avremo di fronte quando Saddam avrà lasciato il potere. L'Iraq non dovrà essere né troppo forte, per non mettere a rischio l'equilibrio delle forze nella regione, né troppo debole, per salvaguardare la sua indipendenza di fronte a vicini avidi, come ad esempio l'Iran... Gli Stati Uniti non potranno indurre l'Iran integralista alla moderazione se non sapranno mettere ordine in Iraq dopo averlo vinto oppure se i dirigenti di Teheran, volgendo gli sguardi verso l'altro lato della loro frontiera, vedranno con quale facilità e con quali risultati si possono sfidare gli Stati Uniti. Quale ragione potrebbero allora avere gli ayatollah per incamminarsi sulla via della moderazione...".

Quale chiarezza e quale sincerità nell'esposizione di una linea politica imperialista! Senza le ipocrisie degli imperialisti mascherati che nascondono gli interessi imperialistici dietro motivazioni «umanitarie»(basti pensare al governo D'Alema in occasione della guerra del Kosovo quando l'intervento italiano fu motivato sulla base di un presunto interventismo umanitario...).

Da un lato parlano di una guerra per le armi di distruzione di massa, dall'altro di una guerra per il petrolio iraqeno. Bah...

Nel mondo multipolare sviluppatosi dagli anni '90, le guerre coinvolgono tutte le grandi potenze: che poi alcune intervengano con la forza delle armi (come U.S.A. e Gran Bretagna) e altre usando la bandiera pacifista (come l'asse franco-tedesco e la Russia) attiene semplicemente alla questione dei diversi interessi e soprattutto dei diversi rapporti di forza in essere al momento. Le lotte interimperialistiche sono sempre state condotte utilizzando tutte le armi a disposizione, da quelle militari a quelle diplomatiche ed ideologiche (compreso il pacifismo), da quelle monetarie a quelle commerciali e finanziarie: confondere l'imperialismo con il militarismo è stato ed è fonte dei più grandi errori di comprensione dei processi storici della nostra epoca e delle loro disastrose conseguenze.

L'Europa, nel suo asse franco-tedesco, ha potuto reggere il confronto nella dura battaglia politico-diplomatica contro gli U.S.A. che si è scatenata prima della guerra, in primo luogo perché disponeva dell'euro; l'autorevole Wall Street Journal ha opportunamente stabilito un confronto con la crisi di Suez, quando agli U.S.A. bastò minacciare l'attacco al franco e alla sterlina per far rientrare l'iniziativa militare franco-britannica: con l'euro non sarebbe più possibile.

E l'Europa, nonostante le divisioni che l'imperialismo americano ha cercato in tutti i modi di provocare e di utilizzare, è riuscita nell'intento di portare a buon fine la Convenzione con tutto quello che significa: un risultato storico ed un'altra grande vittoria per l'imperialismo europeo.

Uno degli equivoci più diffusi circa l'ultima guerra iraqena e la fase attuale delle relazioni internazionali, è certamente quello relativo al presunto strapotere e unilateralismo americano: in realtà, se è vero che gli Stati Uniti sono tuttora la prima potenza politico-militare del mondo, è altrettanto vero che il tempo gioca a loro sfavore. Basta un confronto tra la guerra del 1991 e quella del 2003. Nel 1991 non c'era l'euro, il trattato di Maastricht non era ancora stato approvato, la forza economica della Cina era (secondo Angus Maddison per l'OCDE) attorno ai 2100 miliardi di dollari, contro i 5100 del 2003, l'India era a 1100 contro i 2100, Cina e India insieme erano un quarto di America ed Europa mentre nel 2003 si avvicinavano alla metà.

La stessa dinamica della battaglia diplomatica che ha preceduto la guerra del 2003 conferma ampiamente l'indebolimento degli U.S.A.: nel '91, infatti, non ebbero alcuna difficoltà ad ottenere una dozzina di risoluzioni ONU che avallarono la guerra in tutto e per tutto; inoltre lo schieramento militare comprendeva oltre una trentina di Paesi, con europei ed arabi in prima fila (Siria inclusa!): in particolare i Paesi arabi fornirono quasi 300.000 soldati. Infine il conto della guerra (55 miliardi di dollari) venne pagato quasi interamente dai Paesi del Golfo e del Giappone.

Nel 2003 invece, l'asse franco-tedesco in alleanza con Mosca non solo ha impedito agli U.S.A. di fare la guerra in ambito ONU e dunque in condizioni di legalità internazionale (con pesanti riflessi sul difficile dopoguerra...), ma ha condannato gli U.S.A. ad un isolamento che ha significato una grave sconfitta diplomatica in Consiglio di Sicurezza ONU. Quanto allo schieramento militare, si è limitato al significativo contributo britannico e ad un contributo simbolico di Australia e Polonia: il ritardo ed i problemi nel dispiegamento della Forza di interposizione non fanno che confermare come le difficoltà americane siano state ben superiori a quelle incontrate dodici anni prima. Infine i costi della guerra pesano interamente sui contribuenti anglo-americani...

L'evidente debolezza politica del mondo arabo, non deve far dimenticare che anche in quelle regioni è in corso un processo di sviluppo capitalistico che sta cambiando e cambierà ancora di più in futuro i caratteri economici, sociali, religiosi, culturali e politici di quelle società. La stessa struttura sociale dei Paesi arabi, indicativa dello sviluppo capitalistico, è cambiata profondamente in questi decenni. La popolazione attiva nel mondo arabo è vicina ai 70 milioni (su 240 milioni di abitanti, dal Medio Oriente al Marocco), mentre gli addetti all'industria sfiorano i 20 milioni (l'Egitto da solo supera i 4 milioni...).

Queste aree sono anche al centro di intensi flussi migratori: dai Paesi asiatici alle petromonarchie del Golfo, così come dai Paesi mediorientali e del Maghreb verso l'Europa ed il Nordamerica. Ciò significa che non solo si sta sviluppando un forte proletariato nella regione, ma che i giovani di quella regione porteranno abbondante nuova linfa ai proletariati della vecchia Europa.

Il quotidiano dei vescovi italiani, Avvenire, ha riportato in un articolo del 2003 l'elenco completo delle 316 guerre che hanno provocato, nel corso del XX secolo, oltre 200 milioni di morti: ciò significa che ogni giorno, per tutti i 36.525 giorni del secolo passato, sono morti a causa delle guerre una media di oltre 5000 esseri umani.

Si tratta dunque di una plateale smentita della convinzione più diffusa, secondo cui le guerre scoppierebbero solo per colpa dei "tiranni" o al massimo a causa dei governi "di destra". Infatti le guerre del XX secolo sono state combattute sotto ogni latitudine, dietro ogni credo religioso, da regimi di ogni tipo e da governi di ogni tendenza politica e non sono state un prodotto della povertà, ma della ricchezza: infatti il XX secolo ha visto il più gigantesco incremento nella produzione di ricchezza mai visto nella storia dell'uomo, dato che la ricchezza annuale prodotta nel mondo si è moltiplicata di un fattore 20 tra l'inizio e la fine del secolo.

È bene allora ribadire che la causa delle guerre non sono i vari Saddam, Bush o Chirac: ma il sistema economico-sociale, l'imperialismo, che produce in continuazione e mette al potere personaggi di tal fatta in quanto espressione di Stati in perenne lotta tra loro. Stati che a loro volta rappresentano gruppi economici e borghesie nazionali che si scontrano per spartirsi mercati e sfere d'influenza e che allo scopo fanno ricorso a tutte le armi disponibili, da quelle monetarie e commerciali a quelle diplomatiche o militari. Del resto le crescenti tensioni del mondo multipolare ed i minacciosi piani di riarmo delle maggiori potenze, lasciano intravedere un XXI secolo che promette di essere la riedizione ingigantita dei drammi del secolo che l'ha preceduto: sarà bene ricordare in proposito che la barbarie imperialistica del XX secolo va considerata molto più come un prologo del XXI secolo piuttosto che un residuo del passato (che in realtà non aveva mai visto nulla di paragonabile in quantità e qualità di violenza espressa).

Una conferma importante ci viene da Angelo Panebianco che, in un editoriale del Corriere della Sera (28/07/2003) dal titolo "Guerre umanitarie e guerre politiche", scrive: "[...] le guerre non si fanno solo per violazioni della legalità internazionale (come fu giustificata la guerra del Golfo del '91), per ragioni "umanitarie" (Kosovo) o per diretta risposta a un'aggressione (Afghanistan), ma si fanno anche, a volte, per ragioni politiche, per modificare, in questa o quell'area, equilibri politici e di potenza...".

L'ammissione di Panebianco è importante perché conferma l'inevitabilità della guerra nella società imperialistica, dato che gli equilibri di potenza sono per definizione instabili, a causa dell'ineguale sviluppo del capitalismo, e dato che ogni potenza cercherà sempre di modificarli a proprio vantaggio.

Essere pacifisti è illudersi che possa diffondersi la pace ovunque nel capitalismo. Essere contro la guerra è, invece, conoscere il sistema in cui si vive e non appoggiarlo, ripudiando la violenza intrinseca a tale sistema.