La guerra del 1967 - Parte I

16/01/09

16/01/09


L'ultimo mezzo secolo di storia ha reso il Medio Oriente terreno di massima verifica del concetto di von Clausewitz della guerra come continuazione della politica con altri mezzi. Continuazione non significa equiparazione di guerra e politica, né intercambiabilità tra guerra e pace. Significa ricondurre l'irrazionalità del macello di uomini entro i confini razionali della lotta politica di cui la guerra è uno strumento. Ma anche riconoscere l'impotenza della politica di fronte alle contraddizioni insanabili del mondo diviso in classi, nazioni, religioni: impotenza delle potenti classi dominanti, non destino inappellabile dell'umanità

La guerra del 1956 si era chiusa senza trattati di pace. Due accordi "sulla fiducia" avevano definito la tregua. Il primo, tra Nasser e il segretario generale dell'ONU Dag Hammarskjöld, stabiliva che il Cairo avrebbe potuto espellere i caschi blu dell'UNEF (United Nations Emergency Force), schierati sul suo territorio lungo la linea divisoria con Israele, nel Sinai. Con il secondo accordo il segretario di Stato americano John Foster Dulles si impegnava con il ministro degli Esteri d'Israele Golda Meir a considerare un atto di guerra ogni tentativo egiziano di ripristinare il blocco sullo stretto di Tiran, che separa la punta meridionale del Sinai dall'Arabia Saudita. Più che le condizioni di una pace, gli accordi stabilivano le condizioni per la ripresa della guerra.

Nel 1964 il fondatore d'Israele David Ben-Gurion si dimette e il partito laburista (Mapai) si rompe con l'uscita di Moshe Dayan, eroe della guerra di Suez, e di Shimon Peres.

Progetti israeliani di incanalare le acque del Giordano dalla Galilea al deserto del Negev destarono il timore che la nuova leadership di Levi Eshkol, Golda Meir e Yigal Allon mirasse a creare uno spazio per altri tre milioni di immigrati ebrei. Damasco, appoggiata da Amman e Riad, invitò alla guerra di popolo. Nasser, inchiodato nella guerra dello Yemen, cercò di imbrigliare la campagna siriana. Il vertice della Lega Araba svolto al Cairo decise di finanziare un progetto per la deviazione del Giordano alle sue sorgenti, per ridurre le acque di Israele, e di creare un Comando Arabo Unito (CAU) con un bilancio decennale di 345 milioni di dollari (quasi raddoppiato nel 1965), con a capo due generali egiziani. Un anno dopo il vertice arabo costituì l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) sotto la guida dell'avvocato Ahmad al-Shuqayri, nasseriano.

Era una cooperazione in gran parte di carta. Le divisioni si riaccesero. La Giordania rifiutò di lasciar schierare sul suo territorio unità arabe straniere. Il Libano nicchiava. L'Iraq rifiutò la consegna dei suoi aerei al CAU. Il comando egiziano era contestato. Nel 1965 Nasser lanciò un boicottaggio della Germania che aveva riconosciuto Israele, ma Marocco, Tunisia, Libia e Arabia Saudita non aderirono. Arabia Saudita, Giordania e Iran si allearono nella Lega Islamica, detta anche Alleanza delle Tre Monarchie, denunciata da Nasser come complotto americano. La Siria impugnò con forza l'arma della guerriglia palestinese: le azioni di al-Fatah contro gli insediamenti israeliani passarono da poche decine nel 1965 a centinaia nel 1967. L'OLP nasseriana invece concentrò i suoi attacchi contro la monarchia giordana di Hussein. Il re fece arrestare 200 guerriglieri e chiuse gli uffici dell'OLP ad Amman, mentre Nasser incarcerò tutti i militanti di al-Fatah in Egitto e a Gaza.


Secondo lo storico Helmut Mejcher si possono analizzare quattro cause endogene della guerra dei Sei Giorni.

  • La "guerra dell'acqua" nella valle del Giordano e, collegata ad essa, la questione delle terre coltivabili, tra cui le zone smilitarizzate di frontiera che Israele iniziò a dissodare e coltivare, furono motivo continuato di scontri con la Siria.
  • La questione della Cisgiordania, area principale delle operazioni guerrigliere ma anche sede della capitale biblica di Gerusalemme, era il motivo del braccio di ferro, fatto di negoziati segreti e rappresaglie, tra Israele e la Giordania.
  • La centrale atomica di Dimona, nel Negev, realizzata grazie alla "concessione francese" di Shimon Peres: costruita formalmente per il fabbisogno energetico degli impianti di desalinizzazione sul Mediterraneo, fu in realtà al centro del programma di riarmo nucleare israeliano. Quando la crisi si inasprì Peres propose di usare il deterrente atomico per impedire lo scoppio delle ostilità, ma il capo di Stato Maggiore Yitzhak Rabin lo impedì. Tuttavia il governo di Eshkol ordinò di armare e tener pronte all'uso due bombe atomiche.
  • Lo stretto di Tiran e l'accesso al porto di Eilat, che Israele aveva conquistato nel 1956. Largo sette miglia, Tiran è la via di collegamento di Israele, attraverso il Mar Rosso, con l'Oceano Indiano e il commercio afro-asiatico. Entro il 1965 Israele aveva costruito un oleodotto di 257 miglia che collegava Eilat con Haifa, sul Mediterraneo, e aveva una portata annua di quasi 5 milioni di tonnellate di greggio, proveniente in massima parte dall'Iran.

Ma fu il mutamento delle relazioni di potenza ad accelerare la corsa verso la guerra.

G. H. Soutou, in una nota a Les Articles du Figaro di Raymond Aron, osserva che la concessione dell'indipendenza all'Algeria da parte di De Gaulle aveva messo anche fine all'alleanza franco-israeliana che era stata il perno dell'operazione militare del 1956. Il Generale mirava adesso a sviluppare una "grande politica araba". Ciò determino la sua politica nel 1967, quando sospese le forniture militari e ammonì Israele contro la guerra preventiva. Aron, in un articolo su Le Figaro del 31 agosto 1967, accredita la tesi che Nasser non avrebbe decretato il blocco del golfo di Aqaba, che fece precipitare la guerra, se non avesse creduto di avere il sostegno della Francia.

L'altro alleato di Israele del 1956, la Gran Bretagna, attraversava uno dei suoi momenti peggiori. Tenuta fuori dalla CEE dal veto di De Gaulle, in preda ad una profonda crisi economica e monetaria, nella primavera del 1967 Londra era arrivata alla determinazione di dimezzare la sua presenza ad Est di Suez. Non solo non fu in grado di svolgere alcun ruolo nella crisi mediorientale del 1967, ma questa crisi divenne il catalizzatore della svalutazione della sterlina e della decisione del governo Wilson di ritirarsi definitivamente da Est del Canale.

Gli Stati Uniti si stavano impantanando nel Vietnam. Non avevano la possibilità di impegnarsi in un secondo teatro né a fianco di Israele né per imporre un congelamento della crisi. L'amministrazione Johnson aveva cercato di operare una bilancia militare nell'area, aumentando le vendite di armi da 44 a 995 milioni di dollari, di cui, secondo lo storico israeliano Michael B. Oren, la quota andata a Israele era trascurabile, mentre la spesa militare complessiva dei Paesi arabi era stata in quel periodo di 938 milioni di dollari l'anno, quasi il doppio di quella israeliana.

Era stata l'Unione Sovietica la maggiore fornitrice militare della regione. L'URSS approfittava della guerra del Vietnam, che immobilizzava Washington, per rafforzarsi nel Medio Oriente, specialmente (sottolinea Oren) dopo la perdita totale di influenza in Indonesia, a causa del colpo di Stato del sanguinario Suharto del 1965, e per la necessità di contrastare l'offensiva ideologica della Cina. Dopo il 1956 Mosca aveva fatto in Medio Oriente un massiccio investimento politico, con 2 miliardi di dollari di aiuti militari (1700 carri armati, 2400 pezzi d'artiglieria, 500 aerei a reazione, 1400 consiglieri) per il 43 % andati all'Egitto. Aveva nominato Nasser e il suo feldmaresciallo Amer "eroi dell'Unione Sovietica", onoreficenza mai concessa prima di allora a stranieri. Dopo il nuovo colpo di Stato siriano del febbraio 1966, con cui il generale Salah Jadid e il comandante dell'aviazione Hafez al-Assad insediarono un regime baathista più radicale dei precedenti, l'URSS strinse forti legami con Damasco. Nel solo 1966 le fornì aiuti per 428 milioni di dollari.

A Mosca la carta siriana entrò nel dibattito sull'intensità con cui sfruttare l'avventura vietnamita di Washington. Il maresciallo Andrei Antonovich Grechko, viceministro della Difesa, appoggiato da Leonid Ilych Brezhnev, sostenne la necessità di una linea muscolosa, incoraggiando la Siria ad intensificare le azioni di guerriglia. Gli scontri di frontiera si moltiplicarono. I siriani usarono con maggiore frequenza l'artiglieria e l'aviazione.

Nasser, preoccupato dell'incalzante pressione siriana, ricorse al collaudato sistema di cavalcare la tigre per imbrigliarla. Il 4 novembre 1966 Egitto e Siria firmarono un Trattato di Difesa, promettendosi, in caso di conflitto, di impegnare Israele su due fronti contemporaneamente. La Siria chiuse l'oleodotto dell'Iraq Petroleum Company (IPC) per imporre un aumento dei diritti di transito. A Tel Aviv, mentre il premier Eshkol voleva delimitare gli attriti di frontiera e le rappresaglie temendo l'escalation con la Siria e l'orso russo, il capo di Stato Maggiore Rabin impose una reazione più energica. Nel novembre 1966 organizzò una rappresaglia in territorio giordano presso Hebron, mentre nell'aprile 1967 sfidò l'aviazione siriana sopra il cielo di Damasco in una battaglia aerea che impegnò 130 apparecchi e si concluse con l'umiliante perdita di sei MiG siriani.

In Egitto il feldmaresciallo Amer ritenne che il tempo della resa dei conti con Israele fosse maturo: chiese a Nasser di riprendere il pieno controllo del Sinai, espellendo la forza di interposizione dell'ONU. Nasser esitava. La diplomazia di Mosca suggeriva cautela ma intanto la flotta russa si stava concentrando nel Mediterraneo.