Dove corre Internet?

08/10/13

08/10/13


In meno di vent'anni Amazon ha messo a soqquadro il mondo dell'editoria e del commercio. Oggi si stima che nei soli Stati Uniti d'America distribuisca i due terzi dei libri venduti, sia cartacei che digitali (e-book). Questo ha messo in crisi i grandi magazzini Wal-Mart e Best Buy, le librerie Barnes & Noble e provocato la fusione tra i due giganti dell'editoria Penguin (proprietà della tedesca Bertelsmann & Co., la mamma di RTL e BMG) e Random House (della britannica Pearson PLC).

È probabile che tra qualche anno un'innovazione ben più importante rispetto all'e-booking possa farci dimenticare della "distruzione creativa" di Amazon: il cloud computing. Questo è un nuovo ramo di servizi che vede sempre protagonista il colosso di Seattle, ma affiancato da Apple, Google, IBM, Microsoft e altri. Nei fatti si tratta della cessione in affitto a terzi (sia aziende che privati) di un determinato quantitativo di capacità di elaborazione e stoccaggio dati (parliamo di circa 40 miliardi di euro di ricavi che raddoppieranno nel 2016).

I motivi per cui il cloud computing si sta affermando sono due:
  1. la ristrutturazione delle aziende clienti (i 180 dipendenti Amazon nei servizi web gestiscono 6 mila clienti, i quali, se lavorassero in proprio, avrebbero bisogno di 30 mila lavoratori)
  2. la rapida diffusione di tablet e smartphones (concepiti per vivere in costante connessione con la rete, alla quale cedono di fatto gran parte della loro "memoria")
Nel mondo esistono 600 milioni di connessioni a Internet in banda larga su rete fissa e circa 1,2 miliardi su rete mobile. Eppure, agli occhi del largo pubblico, Internet viene presentata come qualcosa di "etereo", di "immateriale", piena di algoritmi e priva di fisicità. Un qualcosa "libero e di tutti" (ricordate le battaglie grilline del MoVimento 5 Stelle, ad esempio?). Nulla di più inesatto e fuorviante. Il nostro pianeta è un fitto gomitolo di cavi su cui si erge una foresta di antenne in cui fioriscono i data center.

Data center di Google nella cittadina americana di The Dalles, Oregon

Il 95% del traffico voce e dati intercontinentale passa attraverso la rete di cavi in fibra ottica posati sui fondali marini, per poi diramarsi per le grandi dorsali terrestri e i ripetitori cellulari. Come abbiamo visto nella serie di articoli precedenti, è trascorso circa un secolo e mezzo dalla posa del primo cavo telegrafico transatlantico.

All'epoca l'impresa mobilitò allo stremo le finanze, le capacità industriali, tecniche e scientifiche di Gran Bretagna e Stati Uniti. Oggi l'intera rete sottomarina in fibra raggiunge il milione di chilometri, ossia 25 volte il giro dell'equatore.

La posa di un cavo è possibile grazie allo studio della geologia dei fondali, del rischio sismico, delle zone di pesca, delle strutture già in loco. Segue la definizione del percorso con relativi test al sonar, infine il rilascio vero e proprio. Nelle zone vicino alle coste è necessario l'interramento a protezione del cavo, e lungo il percorso, a distanza di circa 70 km, si devono posare i ripetitori di potenziamento dei segnali: ne abbiamo 15 mila e costano circa 750 mila euro l'uno. Questo immane e delicato lavoro è svolto solo da quattro aziende: France Télécom Marine, l'inglese Global Marine, la giapponese NTT e l'americana Tyco.


Per rendere l'idea della fisicità di Internet possiamo prendere come esempio l'architettura del trasporto aereo. Degli hub funzionano da centro di smistamento del grande traffico verso le destinazioni secondarie, mentre gli Internet exchange sono i "mozzi", dove i grandi protagonisti della rete collocano i loro computer e li collegano a quelli di una miriade di altri soggetti. Ne esistono diversi su scala mondiale, ma i principali sono collocati (non casualmente) negli snodi dell'economia e della finanza mondiali.

Facebook, ad esempio, ne utilizza ben 16 per collegarsi al suo network e sono a Chicago, Dallas, Los Angeles, Miami, New York, due a San Francisco, Seattle, Washington, Amsterdam, Francoforte, due a Londra, due a Hong Kong, Singapore. Per comprendere ancora meglio la fisicità in oggetto, basti tenere presente che l'hub IX di Ashburn, a pochi chilometri da Washington, è un complesso di capannoni di 65 mila m2 (come 11 campi da calcio!). Equinix, la società che lo gestisce, ha un centinaio di siti in giro per il globo.

La realtà fisica nel mondo di Internet è quindi molto distante dalla narrazione mitologica che parla di virtualità. Ed è anche molto distante dal mito dell'ecologismo. Le decine di migliaia di data center che smistano e immagazzinano il sempre più crescente traffico di dati consumano elettricità per il funzionamento dei server, per la climatizzazione, per le batterie d'emergenza, per i sistemi di continuità e di sicurezza contro gli incendi. Possiamo stimare il consumo elettrico mondiale dei data center in 265 miliardi di kWh, una quantità pari a due volte il consumo annuo dell'intera industria italiana e quattro volte quello delle famiglie. Nel decennio appena terminato, il consumo elettrico mondiale è cresciuto di poco più di un terzo, mentre quello dei data center del 235%.

Non è un caso che alcune particolari aree si stiano trasformando in veri e propri cluster per i centri dati dei maggiori gruppi di Internet. Il boscoso Oregon ha un clima fresco, è ben posizionato appena a Nord della Silicon Valley californiana e soprattutto dispone di abbondante energia idroelettrica a basso prezzo. Nella cittadina di The Dalles sono ubicati i data center di Google, Microsoft e Yahoo!. Poco distante, a Prineville, quelli di Apple e Facebook. A Boardman quello di Amazon. E ciascuno di questi è grande come una portaerei, ma nulla in confronto al Range International Information Hub che sarà ultimato nel 2016. La collaborazione fra IBM e Range Technology porterà infatti alla costruzione del più grande data center per cloud computing esistente (quasi 600 mila m2, come il Pentagono) e si ergerà sulla città cinese di Langfang, nella provincia di Hebei.