Cronache della crisi Ucraina tra Russia, Europa e USA

31/03/14

31/03/14


L'Ucraina porta nel nome (krajna) il concetto di estremità, periferia, frontiera: dell'espansione imperiale moscovita a fronte dell'influenza polacca e austroungarica per tutta la seconda metà del millennio trascorso.

Le linee di faglia storiche hanno diviso sulla carta geografica i fattori etnico-linguistici e religiosi: a Est e in Crimea il popolo russofono e ortodosso fedele al patriarcato di Mosca; all'estremo Ovest, verso quelli che oggi sono i confini dell'Unione Europea, il polo cattolico di rito latino o greco (Chiesa uniate), eredità del dominio polacco; nel vasto corpo centrale attorno alla capitale Kiev e al corso del fiume Dnepr, l'area bilingue, ortodossa, in parte fedele a Mosca e in parte al patriarcato secessionista della capitale, creato nel 1992 come segnale di separazione politico-religiosa dalla Russia.


L'allargamento della UE a Est porta il "sogno europeo" fin sul confine: la scelta europea si identifica, nella percezione di una parte consistente della popolazione, con la prosperità, la pace e la modernità, per quanto la prospettiva di un ingresso dell'Ucraina non sia affatto sull'agenda dell'Europa. Sull'altra sponda del Dnepr, la forte ripresa economica russa degli ultimi quindici anni carica il magnete moscovita di commesse e scambi commerciali, a partire dal gas naturale, al centro di una crisi nel 2006.

La crisi politica del 2004

Queste dinamiche esterne agiscono sulle percezioni della variegata popolazione ucraina combinandosi con le dinamiche interne. Quella economica ha visto anni di forte sviluppo: dal 2000 al 2003 l'economia del Paese ha accumulato una crescita del 30%, sviluppo più marcato nella parte occidentale, dove la produzione industriale viaggiava al ritmo del 30-40%.

Il momento critico del 2004 deve molto al caso politico, vista la scadenza elettorale presidenziale e all'impossibilità per l'uscente Leonid Kučma di ricandidarsi. In quella crisi, ebbe la meglio il presidente Viktor Juščenko a causa dei brogli elettorali compiuti a favore di Viktor Janukovyč (che divenne presidente sei anni più tardi, nel 2010) e smascherati dalla rivoluzione arancione. Il 26 dicembre 2004 la coalizione di Viktor Juščenko, nella quale figuravano componenti antisemite e ultranazionaliste, si afferma col 52% dei voti contro il 44% del rivale.

Peso di voto nelle elezioni presidenziali del 2004

La pasionaria Julija Tymošenko

Tra gli alleati del bancario Viktor Juščenko, già governatore della Banca centrale ucraina, c'è Julija Tymošenko, nata nel 1960 nella città industriale di Dnepropetrovsk: soprannominata negli anni Novanta "la principessa del gas", questa donna dallo stile decisionista, arrestata nel 2001 dopo il marito Oleksandr per aver falsificato dei documenti e importato illegalmente gas naturale nel Paese, si fece notare alla testa delle proteste di piazza durante la rivoluzione arancione.

Scarcerata, comincia la sua battaglia in capo all'opposizione di Juščenko contro il governo di Leonid Kučma. Saliti al potere nel 2005 fu subito nominata primo ministro ma dopo soli otto mesi il governo venne sciolto e si indirono nuove elezioni. Nodo centrale del dissidio tra lei e il presidente Juščenko fu la cancellazione delle privatizzazioni "pilotate" del governo precedente: per la "principessa del gas" doveva essere pressoché totale coinvolgendo circa 3 mila aziende, mentre per il suo capo politico avrebbe dovuto coinvolgere solo una trentina di casi. La politica di stampo populista applicata dal governo Tymošenko produsse nell'arco di quell'anno un netto peggioramento dei conti pubblici, nonché un rallentamento della produzione industriale e del tasso di crescita del PIL, sceso dal 13% del 2004 al 2%.

Dal punto di vista elettorale la rivoluzione arancione non ha intaccato il dato storico di un legame russo che non poteva e non può essere aggirato, non solo per i rapporti economici (che la stessa Tymošenko aveva, ad esempio, tramite gli stretti legami con Gazprom che la porteranno anche in carcere nel 2011, da cui uscirà solo il 22 febbraio di quest'anno, dopo che il parlamento ha votato a maggioranza la legge ad personam sulla depenalizzazione del reato per cui è stata arrestata), ma anche per le persistenti tradizioni linguistiche, culturali e religiose. Se analizziamo il bacino di influenza delle due coalizioni nelle elezioni legislative del 2006, notiamo che è il medesimo di due anni prima:



Madre Russia

Quello che sta succedendo a Kiev in questi mesi affonda le sue radici nella storia della Russia più che dell'Europa. Culla millenaria dell'identità russa e parte dell'Impero russo dalla metà del XVII secolo, l'Ucraina fu uno dei primi Paesi che Stalin si riprese dopo che Lenin e il Partito bolscevico le avevano lasciato completa indipendenza, insieme ad altri Stati quali Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania e Polonia, con il trattato di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918. La Polonia si fece leonessa due anni dopo, conquistando Kiev.

La prima politica staliniana applicata in Ucraina fu uno sterminio: la deportazione dei contadini kulaki si affiancò al genocidio ricordato come holodomor, che consistette nel tenere per quattro anni (dal 1929 al 1933) il "granaio russo", che produceva la metà del frumento di tutta l'URSS, sotto carestia forzata. I due eventi provocarono tra i tre e i quattro milioni di morti. L'Ucraina era russa, e Stalin lo ricordò al mondo intero.

La spartizione dell'Europa seguita alla Seconda Guerra Mondiale portò Stalin, consapevole della condizione di debolezza dell'URSS, ad avere una posizione di ripiego sullo status dei Paesi dell'Est Europa: con una forma politica democratica e una condizione di indipendenza nazionale, Bulgaria, Finlandia, Romania e Ungheria rimasero tuttavia "rispettosi degli interessi dell'URSS". Ma l'Ucraina no, rimase nella "casa russa" ancora per quasi mezzo secolo.


Il peso dei suoi 45 milioni di abitanti è un terzo di quello russo e visti i piani di restaurazione dello spazio strategico dell'ex URSS, disgregatasi tra il 1989 e il 1991 (anno della nuova indipendenza ucraina) con il crollo del falso socialismo, e della strada dell'"Unione eurasiatica" intrapresa da Vladimir Putin che abbiamo visto nell'articolo su Euromaidan, non è difficile concordare con le analisi che pongono la questione ucraina nella contesa mondiale come confronto tra forze di stazza continentale. La Russia da sola non sarebbe comparabile con l'Unione Europea, mentre la Russia nell'Unione eurasiatica le si avvicinerebbe, perché passerebbe dagli attuali 145 milioni ai 250 (di cui 45 ucraini) arrivando a pesare la metà dell'Europa.

Nella remota possibilità che il movimento europeista Euromaidan trionfi, la Russia sarebbe privata definitivamente dell'Ucraina, sancendo così la sconfitta strategica di Mosca su un suo interesse vitale.

La posizione europea

Se c'è una novità in una crisi che finora ha ripercorso un canvas già noto, è nel ruolo attivo che ha assunto la UE e in particolare la Germania. I ministri degli Esteri di Francia, Germania e Polonia hanno trattato a Kiev con l'inviato russo. Il cancelliere Angela Merkel ha negoziato a più riprese con Putin, confermando che per Berlino la relazione con Mosca è obbligata.


Questo ruolo tedesco fa parte della linea che vede la Germania, testa dell'Unione Europea, assumersi la responsabilità nella politica estera e di difesa europea. Perché l'Ucraina è sì una questione russa, ma sullo scacchiere mondiale diventa anche questione europea in primis e statunitense poi.

L'attenzione degli Stati Uniti

In questa nuova crisi nella posizione statunitense prevale la prudenza, anche se è improbabile che gli USA possano mai rinunciare totalmente alla carta ucraina per condizionare sia la Russia sia l'Unione Europea, che impedirebbe soprattutto il contrasto a una relazione esclusiva tra queste due potenze. Dopo la "scottatura" presa dalla Casa Bianca nell'esperienza della guerra russo-georgiana del 2008 in cui appoggiò invano la Georgia, Barack Obama si tiene a distanza volutamente. Il presidente americano non vede nella crisi ucraina un'occasione, ma un problema da gestire con i minori coinvolgimenti possibili.

Questa politica di "autolimitazione" è già stata attuata in Siria e in Libia ed è proprio questa che ha spinto l'Amministrazione Obama al ritiro da Iraq e Afghanistan.

Ora la Russia ha una frontiera con la Cina (il suo "incubo strategico", come l'ha definito l'ex Segretario di Stato USA Henry Kissinger), una frontiera con l'Islam (un "incubo ideologico") e una frontiera con l'Europa ("storicamente travagliata"). La sfida per Vladimir Putin è enorme, e non sarebbe negli interessi statunitensi spingerlo nella percezione di chi si sente assediato. In sintesi, l'obiettivo americano è quello di non dar modo ai russi di sentirsi come se dovessero dimostrare cosa siano in grado di fare.